(DIRE – Notiziario settimanale Sanita’) Roma, 22 set. – “Promuovere un vasto movimento di riforma della Salute mentale, la cui realizzazione è un’esigenza non più rinviabile”. È questo l’obiettivo del Manifesto per la Salute Mentale, un testo promosso da Sarantis Thanopulos, presidente della Società psicoanalitica italiana (Spi), già sottoscritto da diversi esperti del settore della salute mentale e che, si legge nella nota di presentazione, “sarà sviluppato progressivamente in un documento finale, attraverso il coinvolgimento di tutte le forze che operano nel campo della cura della sofferenza mentale.

È rivolto alle società scientifiche, agli operatori, alle associazioni degli utenti, al mondo della cultura e alla ‘società civile’, alle forze politiche”.

Il primo passo verso la riforma di questo mondo “sarà un incontro nazionale, a Napoli nel primo weekend di dicembre, che farà il punto sulla situazione e lancerà il progetto. Obiettivo è arrivare alla convocazione di Stati Generali per la riforma della Salute Mentale”. L’assunto di partenza del Manifesto è la constatazione che “la cura del dolore nel campo della salute mentale pubblica è in crisi. Il dominio del modello biomedico l’ha inaridita. L’approccio puramente farmacologico alla ‘sofferenza mentale’ e, tendenzialmente, a tutte le problematiche esistenziali, appiattisce sulla biologia i nostri desideri, sentimenti, pensieri e azioni”. Tale modello, secondo i promotori del Manifesto, “ha creduto di potersi accreditare scientificamente a forza di ‘evidenze’, costruite a sua immagine e somiglianza, ma l’aver perso di vista l’esperienza soggettiva l’ha condotto a risultati deludenti. Si è capovolta progressivamente la prospettiva, faticosamente conquistata, dell’umanizzazione della cura psichiatrica e si è registrato un ritorno prepotente alla logica dell”istituzione totale’ rivisitata: la reclusione delle persone sofferenti in esistenze diagnostiche costruite in funzione di trattamenti farmacologici disinvolti. Le ricerche scientifiche che mostrano l’uso eccessivo, inappropriato dei farmaci, che soffoca insieme ai sintomi anche la persona, e indicano la possibilità concreta di un loro uso pensato, accurato, sono ignorate”.

Accanto all’approccio farmacologico, “la psichiatria dissociata dalla psicoanalisi/psicologia dinamica, dalla pratica psicoterapeutica, dalla fenomenologia, dalla psichiatria sociale e relazionale si è impoverita e rischia di ridursi in mestiere tecnico di contenimento/sedazione delle emozioni, fatto da psichiatri che pensano e agiscono secondo algoritmi. La relazione terapeutica si è chiusa nel rapporto assistenziale a senso unico tra curanti e curati, invece di costituirsi nell’ambito della reciprocità, dello scambio affettivo e mentale tra pari”.

Il promotore del documento ricorda, quindi, come “lavorare insieme, unire saperi ed esperienze in un approccio multidisciplinare, ha rappresentato, nei momenti migliori, l’elemento portante dei dispositivi di cura. Questa eredità tradita- ammonisce Thanopulos- deve essere recuperata. A partire dalla valorizzazione del lavoro dell’équipe territoriale, fulcro dell’intero sistema della Salute Mentale e luogo in cui integrano tra di loro i diversi approcci alla cura. Il buon funzionamento dell’équipe ha poi un suo indispensabile complemento in un rigoroso lavoro epidemiologico e di ricerca clinica che affida la verifica del lavoro svolto soprattutto a criteri di qualità: lo sviluppo dei legami affettivi, della creatività e della libertà di espressione personale”.

Un percorso del genere non può dunque prescindere dalla formazione di tutti gli operatori del settore.

“L’équipe richiede una buona formazione di partenza in tutte le sue componenti. Essa non è, tuttavia, la somma delle competenze che la compongono, non è un’attività poli-ambulatoriale. Non si identifica con una sede ma la sua funzione si diffonde nel territorio e eccede la sua composizione in due sensi. Da una parte include nel suo lavoro il gruppo dei pazienti, i loro familiari, le forze culturali e sociali con cui interloquisce; dall’altra amalgama tra di loro le diverse prospettive che ospita nel suo interno creando una prospettiva unitaria, un lavoro di cura coerente”.

Secondo i sostenitori del Manifesto, “la cura psichica non è un’applicazione di principi tecnici ai quali le persone sofferenti devono aderire. È una prassi che segue principi scientifici, ma prende forma nell’ambito di relazioni personali, che riconosce in ogni storia di sofferenza la sua particolarità. L’umanizzazione della cura non perde mai di vista gli strumenti farmacologici o i dispositivi relazionali che contengono l’angoscia. Le soluzioni anestetiche non riguardano solo coloro che patiscono una sofferenza psichica grave, ma affliggono chiunque nelle varie fasi della sua vita incontri difficoltà, incertezze, vacillamenti, crisi esistenziali”. Per tutte queste ragioni, in conclusione, il Manifesto sostiene che “ribellarsi all’equiparazione tra la persona e la sua biologia è una questione di civiltà. Contrastare la standardizzazione, l’omologazione dei comportamenti e la sottomissione della nostra concezione della vita al tecnicismo dilagante, è- in definitiva- affermare la democrazia”.